RUGGERO ORLANDO

RUGGERO ORLANDO
L’Era di Anna

Ah, ah, ci si figurava un’arte dolce, di fiori di giardino e in vasi, di trasparenze, di azzurri, di pennellate a olio tendenti all’acquerello, di soggetti dall’interpretazione languida, sia pure di tanto in tanto con un po’ d’amaro o di agrodolce, la pittura di una signora elegante, dal sorriso a scoppii, d’ambiente diplomatico, usa a conversazioni d’ogni argomento, intelligenti sì ma senza scorno, di tradizioni aristocratiche e intellettuali, insomma riposante. Erano gli anni Sessanta, Washington, la presidenza Kennedy, i titoli di borsa che ogni mattina valevano un po’ di più, una vena di fresco ottimismo. Era il primo Presidente degli Stati Uniti nato nel nostro secolo; bello come un protagonista di Hollywood, il progressista che aveva telefonato durante le elezioni alla moglie di Martin Luther King, il moderato che ai dimostratori per la pace i quali processionavano con il volto preoccupato all’esterno dei cancelli della Casa Bianca, e c’era fra loro Linus Pauling, due premi Nobel uno per la chimica e uno per la pace, aveva mandato alcuni recipienti di caffè caldo; vittima in politica internazionale della spedizione alla Baia dei Cochinos di Cuba, vittima in politica interna di un Congresso che non gli passava le leggi, che tuttavia un giornalista astioso come Walter Lippman definiva rappresentante di un’èra in cui gli uomini credono che i problemi siano solubili.

La pittura di Anna Sogno era torbida: i suoi rossi precipitavano dal livido al sangue; il suolo era putrido, di un blu d’acqua inquinata; insisteva a mostrarci i cimiteri delle automobili; sulle tinte macabre e sui fori che ne sconnettevano gli spazi squillavano biacche ma erano antropomorfiche, come se le macchine morte raccontassero la fine di chi le aveva fatte e condotte, tibie e teschi spogliati dalla pelle e dalle carni su un campo di battaglia. Era in verità un’epoca tragica; le illusioni della terna che suscitava speranze, Kennedy, Khrusciov, Papa Giovanni stavano convergendo verso la sorda, sanguinolenta, erronea guerra del Vietnam, i giovani precursori americani del Sessantotto francese e italiano, le superficialità di Herbert Marcuse e di Erich Fromm, preannunciavano il vero Sessantotto che fu la marcia armata contro Praga: fra l’altro il ritorno di forze tedesche in Cecoslovacchia. La stoffa della famiglia Kennedy è una enorme tragedia americana; un vecchio miliardario che aveva creduto nella vittoria di Hitler, tre figli morti tragicamente, un quarto figlio omicida colposo d’una giovane donna a Chappaquiddick, una figlia ritardata mentale e un’altra rimasta vedova del marchese di Hartington morta in disastro aereo con l’amante Peter Fitzwilliam.

A completare il gruppo ci sono Jacky Onassis, due volte vedova, i giovani nipoti che avevano creato la banda “il terrore di Hyannis Port”, uno dei quali morto per droga.

Era consapevole Anna Sogno di vivere, di operare, di dipingere in un’atmosfera che sapeva di sole scottante e di nuvoloni neri e temporaleschi? Kennedy aveva annunciato, e ne aveva fatto il suo motto, “la nuova frontiera”, un termine che ispira fremiti storici agli americani perché ricorda loro la marcia verso occidente, l’estensione e l’espansione progressiva, dura, coraggiosa del loro paese, e ancora il cowboy e i carrozzoni dei pionieri ne rappresentano i poemi epici; esaurito il continente, restava lo spazio e Kennedy preannunciava la discesa di un americano sulla luna entro il decennio Sessanta.

L’automobile toglieva rovine metalliche, equivalenti ai ruderi di pietra e mattoni lasciati da altre civiltà potenti. Il drammaturgo seicentesco John Webster aveva fatto dire al protagonista cui la chiesa diroccata non dava asilo «Churches and cities, which have diseases like to men, Must have like death that we have. (Chiese e città, malate come l’uomo, Tocca loro la stessa nostra morte)».

Che vogliamo dire? Riandare a venticinque o trent’anni fa rende più vera la visione di Anna Sogno che non le nostalgie con le quali come sempre tentano gli anni minori; la tavolozza e il pennello decisamente “antigraziosi” di questa artista rispondono ai tempi della guerra fredda, quando gli stessi Kennedy, Johnson e Khrusciov cercavano di uscirne ma venivano rigettati indietro da ondate alte e lunghe, quasi nuotatori che credessero di avercela fatta. La sua malinconia non é la “ninfa gentil” di Pindemonte veronese; non è rassegnata; è in lotta contro la natura. Anna litiga con le opere dell’uomo, con le periferie, contro l’affollamento sia quello meccanico dell’occidente sia quello umano e mercantile di Schwedagon; perfino i papaveri, abbandonato lo chic dei lunghi gambi, stretti gli uni agli altri, minacciano di soffocarci, e Anna brandisce il pennello come una ramazza, decisa a ripulire il mondo, a eliminare rottami dalle strade periferiche, arbusti secchi, sporcizie dagli scarichi e dai mercatini.

C’è un’originalità che supera le trovate degli impressionisti e i contrasti degli espressionisti nell’accostamento di colori ciascuno portante con sé un oggetto, sicché il disegno non viene eliminato ma sommerso traspare. I paesaggi pare che abbiano occhi e bocche; ti guardano, gridano, ti rimproverano.

Nell’ottobre del 1962 mentre Anna Sogno espone i suoi quadri a Nuova York scoppia la crisi di Cuba, la seconda crisi di Cuba dove Nikita Khrusciov ha spedito missili nucleari offensivi, la metà, dice la CIA, del potenziale sovietico; entro pochi giorni un attacco simultaneo sulle città americane avrebbe potuto causare 80 milioni di morti. Bobby  Kennedy si oppone ad una distruzione preventiva delle basi, che avrebbe provocato molti morti ed è contraria, sostiene, alla tradizione americana. Sono tredici giorni di insonnia e di scrupoli; gli americani decidono il blocco di Cuba, Nikita Khrusciov ritira i missili; chiede e ottiene che non si minaccino più azioni contro il regime di Castro (dicesi da alcuni che sia questo il motivo dell’uccisione del Presidente, dovuta almeno in parte agli esuli che contavano sull’aiuto degli Stati Uniti per ridiventare padroni dell’isola).

L’èra di Anna Sogno in America ha sentito le ultime canzoni di Elvis Presley soppiantate dall’aggressione dei Beatles giunti attraverso l’Atlantico nel loro “sottomarino giallo”, di Barbra Streisand assurta alla gloria di “Funny Girl”, del musical “Hair”, di Leonard Bernstein diviso tra l’adorazione per Mahler e le lezioni di armonia in televisione, di Lowell poeta tra versioni dall’italiano e partecipazione con Norman Mailer alla marcia sul Pentagono, Shirley MacLaine fra trionfi cinematografici e comizi elettorali democratici in memoria dei Kennedy uccisi, torbidi alle Convenzioni di Chicago e di Miami, la “desegregazione” per legge di scuole e locali dove i negri non potevano entrare, l’èra dei voli oltre l’atmosfera che riversavano giornalisti, autorità, curiosi in Florida e nel Texas, fotografie dalla faccia nascosta della luna e da Marte spedite punto per punto da migliaia di chilometri a Pasadena in California, e l’erezione del muro di Berlino e i debiti dell’America Latina, Winston Churchill per legge del Congresso cittadino americano, la pace retta sulla paura dell’olocausto, la Corea che sequestra una nave spia, il Vietnam Settentrionale che infiltra il Sud e si predispone a conquistarlo, insomma gli anni Sessanta di angosce, di delitti politici e di mafia, di fermenti che sì e no sboccavano in creazioni, e che questa giovane donna commentava con pennellate larghe e punteggi minuziosi.

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